Oggi, al lavoro, una collega: “Avessi la bacchetta magica non torneresti giovane domani?”. “Ma neanche se mi pagano, con la fatica che ho fatto per arrivare fino a qui!”. “E tornare giovani, ma sapendo quello che sappiamo oggi?”. “Che senso ha essere giovani e non fare cazzate?”. “No, guarda, io subito. Dove devo firmare?”. Mi guardo le rughe allo specchio: quelle profonde, le rughe dei pensieri. Quelle quasi invisibili, una per ogni scelta sbagliata. Quelle delle risate e dei pianti. Sorrido. Le rughe si muovono, si animano sul mio volto. Testimoni di sogni, delusioni, speranze, lutti, amori, paure, rinascite, gioie e dolori ai quali non rinuncerei per nulla al mondo. Il mio corpo che non è più fresco e tonico. Il mio spirito che non è più vergine. Tutto si ribella all’idea di vivere con saggezza la giovinezza, di ripercorrere la vita su strade diverse.
Il musicista è schizofrenico. Sublime in alcuni momenti, in altri straziante. L’archetto stride sulle corde e sussulto sulla poltroncina. È seccante, perché mi distrae dai miei pensieri. Quando suona bene la musica mi porta via, l’immaginazione si scatena. Non sono più in quella sala gremita di gente, sono il personaggio di un libro che si scrive nella mente. Vedo case, muri, facce. Sento profumi, ascolto voci, imbastisco dialoghi. E poi scraaaaachhh, swiffff swiffff. La mente, che vagava lontana, è improvvisamente risucchiata nel suo corpo, come un’anima in sala operatoria che già vede la luce in fondo al tunnel e improvvisamente si sente “libera!” e la luce scompare ed è di nuovo carne e ossa sul tavolo freddo, sotto i neon, circondata da gente sudata e agitata. Certo le luci qui sono soffuse, la poltrona è calda e comoda, io non sono nuda e il mio torace non è aperto, solo il violinista suda e se sono fortunata tra poco l’altro, quello che suona bene, riprenderà il controllo, la musica mi porterà di nuovo via e io sarò di nuovo nel mio mondo di fantasmi, un tunnel a termine dal quale, per fortuna, il ritorno è assicurato.
La domanda emerge ogni tanto, così, senza un motivo. Non mi limito a pensarla, mi esce dalla bocca, a voce alta, rivolta al nulla. Mi coglie alla sprovvista in mezzo a una conversazione, mentre faccio la spesa, le pulizie, una passeggiata, bricolage. Perché? Chiedo, e il tono è di stupore. Un pensiero mi ha forse attraversato la mente alla velocità della luce, oppure qualcosa di più profondo e inconscio, che proviene dal cervello rettiliano, è salito improvvisamente in superficie? La domanda è metafisica? Perché siamo qui? Il giorno che mi sembrava eterno è già passato? Le ingiustizie, i rancori, la guerra, i bambini? O lo stimolo è invece schifosamente immanente? Perché non ho detto la cosa giusta al momento giusto? Non riesco a dimagrire. Non mi ricordo le cose. Non faccio le telefonate che dovrei. Perdo la pazienza. Non sono ricca abbastanza? È di notte che arriva la Risposta. È così semplice e chiara e quando mi sveglio la so, la so, la… Ma l’ho già dimenticata. E allora eccolo lì, forse, il senso della domanda. Ricordarsi che la risposta c’è e continuare a cercarla.
Al di là di questa infinita quantità d’acqua, qualcuno sta guardando di qua, chiedendosi se qualcun altro, in questo stesso istante, guarda di là? Sì, ne sono certa, mi sento i suoi occhi addosso e questa sensazione mi innervosisce. Si sentirà nervoso anche lui? O sarà una lei? I nostri mondi potranno mai toccarsi? E i nostri nasi? Avrà un buon odore? Sarà qualcuno con cui si può giocare o qualcuno da temere? Come quei bambini che prima giocano e poi ti tirano la coda, che un momento ti accarezzano e l’altro ti prendono a calci. E se c’è, potrebbe forse fare qualcosa per me?
Cibo ne ho. Amore anche. Amici e amiche per giocare. Calzini da rosicchiare. Una cuccia calda. Il cibo è un po’ monotono, ma meglio che rovistare nella spazzatura sperando di trovare qualcosa di commestibile. Quello che mi manca è correre. Quando voglio io. Quanto voglio io. Dove voglio io. Forse, se mi concentro, quello dall’altra parte si accorge di me, allunga una mano e sgancia il guinzaglio. Potrei tuffarmi in acqua, saltare tra gli spruzzi, lanciarmi sulla sabbia al massimo della velocità fino a sentire il cuore che scoppia, scavare, rotolarmi, fare la cacca. Ma se di là c’è qualcuno, è troppo lontano. Per vedere il guinzaglio che mi frena. Per sentire i miei pensieri. Per vedere il mio sguardo che lo cerca. A meno che non abbia i superpoteri. Ma allora non vedrebbe solo me, ma tutti quelli che dalla riva guardano l’acqua chiedendosi se al di là del mare c’è qualcuno che guarda al di qua del mare. E anche quelli che non guardano. E anche quelli che guardano ma non si fanno domande. Quante braccia dovrebbe avere per liberarci tutti. Troppe braccia, troppi occhi, troppi pensieri. Un essere mostruoso, da far paura. |
Sarah SajettiParole e immagini ArchiviCategorie |